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venerdì 19 novembre 2010

Anteprima: La Ragazza che rubava le stelle di Brunonia Barry


Titolo: La Ragazza che rubava le stelle
Autore: Brunonia Barry
Editore: Garzanti
Pagine: 480
Prezzo: 18,60

Data di pubblicazione: dal 25 Novembre




Dopo il successo da passaparola de La Lettrice Bugiarda, Brunonia Barry torna a regalarci un'altra storia ricca di sentimento e magia, intitolata La Ragazza che rubava le stelle e pubblicato dalla casa editrice Garzanti. Un titolo che custodisce note nostalgiche, come il colore del cielo alla sera, di un blu profondo e melanconico. Un libro che promette di conquistare il lettore, di trascinarlo insieme a Zee, protagonista della storia, nel suo mondo di ricordi che, come tanti punti luminosi, rischiarano a intermittenza il passato della ragazza e il suo avvenire. Un romanzo che molti attendevano e per il quale si nutre aspettativa. Tuttavia, avremo modo di appagare la nostra fame tra qualche giorno e di scoprirne la qualità. Per il momento, ancora un briciolo di pazienza.



E’ notte e il silenzio avvolge la baia di Salem. Zee Finch è ferma sul molo e fissa il mare. Il tempo sembra essersi fermato. Le stelle brillano nel cielo senza luna e si riflettono sulle acque dell’oceano disegnando un sentiero luminoso. Una volta Zee conosceva bene quel sentiero. Aveva tredici anni e passava le notti in mare aperto a guidare barche rubate, ma trovava sempre la strada grazie alle stelle. Eppure, un giorno, aveva perso quella rotta, e aveva giurato a se stessa di non percorrerla più. Perché quel giorno sua madre sia era suicidata, all’improvviso. Zee era fuggita da tutto e da tutti, dedicandosi agli studi in psicologia. Sono passati quindici anni da allora. Ma adesso è venuto il momento di ripercorrere quella rotta perduta. Il suicidio di Lily Braedon, una delle pazienti più difficili di Zee, che ora fa la psicoterapeuta, la costringe a fare ritorno. Le analogie fra il caso della donna e quello della madre sono troppe. Zee è sconvolta, ma non ha altra scelta: l’unico modo per fare luce sulla morte di Lily è capire la verità sul suo passato irrisolto. Un passato pieno di menzogne e segreti che molti, nella chiusa comunità di Salem, hanno cercato di rimuovere. Zee non può fidarsi di nessuno. Forse nemmeno di suo padre, ormai un uomo vecchio e malato. Non le resta che fare affidamento su se stessa, imparare a non dare nulla per scontato, rimettere tutto in discussione, anche quando la fuga sembra l’unica via d’uscita. Ma deve fare in fretta. Perché una nuova spirale di violenza rischia di rendere ogni sforzo vano. La verità corre su un’unica strada, che Zee ha dimenticato per troppo tempo, ma che se troverà il coraggiosi ripercorrere, la porterà a casa. Qui potrà finalmente realizzarsi il destino che l’aspetta.


La Garzanti ha deciso di donarmi la un'anteprima in pdf dei primi capitoli del romanzo, in modo da poterla condividere con tutti voi. Ringrazio di cuore per la generosità.


I venti, le maree e le tempeste possono facilmente

spingere la nave fuori rotta. Ogni errore si somma

ai precedenti, alterando il tragitto in modo critico,

spesso con esiti tragici. Per questo motivo,

i naviganti finirono per adottare il metodo

della navigazione astronomica.

Le stelle sono una costante.

La Terra gira, ma le stelle restano ferme nel cielo.

Persino il cielo più tempestoso prima o poi

si schiarisce e mostra le stelle.

PROLOGO

Negli anni in cui il suo soprannome era Guaio, Zee aveva l’abitudine di rubare barche. Il padre non ne aveva il minimo sospetto e le lasciava massima libertà in quei primi tempi dopo la morte della madre. E poi era occupato a impersonare il ruolo del pirata, un passatempo eccentrico per un uomo che aveva trascorso la vita a studiare letteratura. Ma quelli erano giorni disperati, ed entrambi erano stanchi di portare sulle spalle il peso della perdita, incapaci di scrollarselo di dosso se non nei fugaci momenti in cui riuscivano a buttarsi in qualcosa fuori dalla portata dei ricordi. Nel mondo creato dalla sua fantasia, l’unica realtà in cui poteva perdonarsi per ciò che era successo quell’anno, a Zee piaceva pensare che il padre, Finch, sarebbe stato orgoglioso della sua abilità di ladra. E nei sogni più sfrenati se lo immaginava complice delle sue avventure: un bel salto per un professore, ma non per il pirata che stava rapidamente diventando. Prediligeva i motoscafi veloci. Qualsiasi imbarcazione che facesse più di trenta nodi era una facile preda. Le misure di sicurezza erano scarse a quei tempi e le chiavi – se esistevano – erano quasi sempre nascoste sulla barca stessa, e di solito nei posti più ovvi. Era facile come un gioco. Sceglieva un motoscafo dalla linea elegante e veloce, si dava esattamente cinque minuti di tempo per fare irruzione a bordo e mettere in moto, e si dirigeva fuori dal porto in pieno oceano. Superati i confini di Salem, dava gas al motore e puntava la prua in direzione di Baker’s Island. Più tardi, la sera stessa, restituiva la barca rubata. Il gioco aveva una sola regola: non doveva mai riportare un motoscafo allo stesso ormeggio dal quale lo aveva preso. Era una buona norma, non solo perché creava un’ulteriore sfida, ma anche perché era sensata. Se avesse riportato la barca al posto di partenza, avrebbe corso il rischio di essere arrestata. Tutti sanno che l’ultima cosa che fa un ladro in gamba è tornare sul luogo del delitto. Di solito la lasciava a una delle banchinepubbliche disposte lungo il litorale di Salem, spesso quella davanti a Salem Willows, il parco dei salici, la prima che si incontrava entrando nel porto. Ma quando i poliziotti avevano cominciato a darle la caccia, Zee aveva deciso di riportare le barche in posti meno ovvi. Talvolta occupava l’ormeggio di qualcun altro. Oppure abbandonava il motoscafo al Derby Wharf, il molo dal quale le era facile fuggire perché era vicinissimo a casa sua. Le era capitato solo una volta di trovarsi in difficoltà perché aveva sbagliato a valutare il livello del carburante. Era nei pressi di Singing Beach, la spiaggia di Manchester-by-the- Sea famosa per i suoni creati dal vento sulla sabbia, quando il motore si spense. All’inizio non pensò di essere a secco di benzina, ma appena controllò il serbatoio comprese il suo errore. Cercò di escogitare un piano per combattere il panico che si stava impadronendo di lei. Avrebbe potuto nuotare facilmente fino a riva, ma la barca sarebbe stata sospinta in alto mare dalla corrente, oppure si sarebbe sfracellata sulle rocce. Per la prima volta ebbe paura che la prendessero. Si sentì stranamente sollevata che intorno non ci fossero altre imbarcazioni, nessuno a cui chiedere aiuto. Non sapendo cos’altro fare, lasciò che il motoscafo andasse alla deriva. Alzò lo sguardo al cielo senza luna: non aveva mai visto stelle più brillanti. Il riflesso si scioglieva nell’acqua intorno a lei come una medicina effervescente in grado di dissolvere anche le sue paure. Abbandonandosi al flusso della corrente e fissando il cielo, sentì che tutto sarebbe andato per il meglio. Quando riabbassò lo sguardo sulla linea dell’orizzonte per cercare di orientarsi, si accorse di essere stata trasportata verso riva. Con la coda dell’occhio vide un profilo scuro e si voltò per capire cosa fosse. Era un molo, con alle spalle una casa buia su una collina. Prese un remo e cominciò a dirigere la barca a terra, ma un’onda sulla fiancata la spinse verso il molo. Afferrò una cima e saltò sul pontile, scivolando e procurandosi una lieve distorsione alla caviglia, ma riuscendo a evitare che la barca vi sbattesse contro. Ormeggiò con cura fissando la prua e la poppa prima di scavalcare faticosamente le rocce per raggiungere la spiaggia. Poi prese la strada che saliva alla stazione ferroviaria, zoppicando un po’ per il dolore alla caviglia. Tutto considerato, non era andata poi così male. Voleva tornare a Salem, ma era mezzanotte passata e non c’erano più treni. Prese in considerazione l’idea di dormire sulla spiaggia. Era una notte tiepida e non c’erano pericoli, ma non intendeva dare un’altra preoccupa-zione al padre: ne aveva già abbastanza. E poi non voleva essere nelle vicinanze quando avrebbero trovato la barca rubata. Così finì per fare l’autostop. Una decisione un po’ imprudente, pensò mentre si avvicinava all’automobile che si era fermata una ventina di metri più avanti e stava facendo retromarcia. Alla guida c’era una donna fra i quaranta e i cinquanta, leggermente sovrappeso, con i capelli lunghi e gli occhi azzurri che brillavano alla luce delle auto di passaggio. All’inizio le disse che poteva portarla solo fino a Beverly, ma poi cambiò idea e decise di accompagnarla a casa, perché temeva che la ragazza facesse ancora l’autostop e venisse raccolta da un assassino o uno stupratore. Mentre percorrevano la Route 127, la donna raccontò a Zee le storie più orribili che conosceva sugli autostoppisti e si fece promettere che non avrebbe mai più chiesto un passaggio a uno sconosciuto. Zee promise, giusto per farla tacere. «Le ragazze promettono sempre, ma poi fanno di testa loro», disse la donna. Zee avrebbe voluto replicare che non faceva mai l’autostop, che non era certo il tipo della vittima, e che quella sera aveva chiesto un passaggio solo per coprire un reato da lei stessa commesso: il furto di un motoscafo. Ma temeva che una simile confessione avrebbe dato il via ad altri predicozzi, perciò tenne la bocca chiusa. Mentre scendeva dalla macchina, si voltò verso la sconosciuta per ringraziarla. Ma invece di dire «grazie», chiese con una voce che sembrava uscita da un cartone animato della sua infanzia: «Vuoi essere la mia mamma?». Era solo un gioco, ma la donna ebbe un crollo nervoso. Cominciò a piangere come se non potesse più fermarsi. Zee le spiegò che stava scherzando. Aveva già una madre, aggiunse, anche se non era vero, non più. Niente di ciò che diceva riusciva a calmarla, e così alla fine pronunciò le parole che avrebbe dovuto dire fin dall’inizio: «Grazie per il passaggio». Naturalmente Zee non le aveva dato il suo vero indirizzo: non voleva che magari le venisse in mente di entrare in casa e parlare a Finch. Si sarebbe nascosta nell’ombra finché l’auto non fosse stata lontana e poi avrebbe attraversato i prati dei vicini per arrivare a casa. Ma alla fine decise che poteva tranquillamente camminare per la strada. La donna stava piangendo troppo forte per notare dove andava o come ci arrivava. Dieci anni dopo, mentre faceva il tirocinio di psicoterapia – dopo essersi liberata del nomignolo Guaio –, la rivide in un gruppo in cura per gli attacchi di panico sotto la guida della sua mentore, la dottoressa Liz Mattei. La donna non si ricordava di lei, ma Zee l’avrebbe riconosciuta ovunque per i suoi luminosi occhi azzurri, ancora lucidi di pianto. Aveva perso una figlia adolescente che era scappata di casa, disse. Alla ragazza era stato diagnosticato un disturbo bipolare, come alla madre di Zee, ma si era rifiutata di continuare a prendere il litio perché la faceva ingrassare. Era stata vista per l’ultima volta mentre faceva l’autostop sulla Route 95, in direzione sud, con un cartello scritto a mano su cui si leggeva NEW YORK. Era l’inverno del 2001 ed erano passati dieci anni da quando la donna aveva perso la figlia. Le Torri Gemelle erano crollate da poco. Il «gruppo attacchi di panico» era cresciuto, ma i pazienti originari erano stranamente diventati più calmi e si aiutavano l’un l’altro, come se la loro ansia fluttuante alla fine avesse preso forma, mentre il resto della nazione cominciava a sperimentare lo stesso terrore che loro avevano provato ogni giorno per anni. Era la prima volta, per quanto Zee poteva ricordare, che i pazienti si guardavano in faccia. E quando la donna parlò di sua figlia, come faceva ogni settimana da quando erano cominciati gli incontri, gli altri membri del gruppo finalmente la ascoltarono. «Così può ribaltarsi il mondo, in un attimo!» disse la donna. «In un battito di ciglia», aggiunse qualcuno. Si passarono i fazzoletti e piansero insieme per la prima volta; piansero per la ragazzina e per l’inevitabile perdita dell’innocenza: la sua e, naturalmente, la loro. Di recente la diagnosi di disturbo bipolare era diventata molto frequente. Mentre all’inizio si credeva che cominciasse dopo la pubertà – com’era stato il caso della figlia della donna con gli occhi azzurri –, adesso veniva diagnosticato anche nei bambini a partire dai tre anni. Zee non sapeva cosa pensarne. Ultimamente le capitava spesso di avere due opinioni su molte cose. Non si era resa conto dell’ironia di questa novità finché Liz Mattei non glielo aveva fatto notare, convinta che lo facesse apposta. Ma Zee le aveva detto che era davvero così, che parlava seriamente. Per quanto fosse certa che il disturbo bipolare fosse una malattia da curare e che, se non veniva trattata, portasse a esiti quasi sempre devastanti, le sembrava sbagliato intervenire troppo presto con i farmaci. Questo era più in linea con le esigenze delle compagnie assicuratrici e delle case farmaceutiche che con il genere di aiuto che Zee si era preparata per anni a fornire. La dottoressa Mattei, famosa a livello internazionale, aveva abbandonato da tempo il gruppo di pazienti affetti da attacchi di panico e ne aveva lasciato la supervisione nelle mani di Zee e di un altro psicologo. Liz adesso era concentrata sulla sua ultima intuizione per un sicuro best seller: la teoria che ogni figlia cerca di portare a compimento i sogni irrealizzati della madre. Ciò accade con allarmante regolarità – sosteneva la Mattei – anche se non conosce quei sogni, anche se non sono mai stati espressi apertamente. Non era un’ipotesi nuova. Ma era nuovo ritenere che si verificasse con maggiore probabilità proprio quando i sogni non erano mai stati espressi, nello stesso modo in cui chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo. Zee aveva ripensato spesso alla donna con gli occhi lucidi, che era tornata alla seduta di gruppo solo una volta dopo quella sera. Si chiedeva quali fossero i suoi sogni irrealizzati, espressi o meno, e se la figlia, quando aveva fatto l’autostop sulla Route 95 e accettato il passaggio di uno sconosciuto diretto a sud, avesse messo in atto qualcosa per la madre. Zee era stata contenta che la donna avesse lasciato il gruppo prima che Liz enunciasse la sua nuova teoria. Quella madre si incolpava già abbastanza della sparizione della figlia, chiedendosi giorno dopo giorno se avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi dandole qualcosa che non aveva saputo darle, forse qualcosa di tangibile e persino banale come il vestito rosso nella vetrina dei magazzini Filene’s a Bos ton che non le aveva comprato. O la settimana al campo scout femminile che la ragazza aveva desiderato per anni. Nessuno capiva meglio di Zee il concetto del «se solo». Lo viveva ogni giorno, e non aveva bisogno di cercarne il motivo. Pensava di sapere cosa aveva voluto la madre quel giorno di tanti anni prima, cosa avrebbe potuto aiutarla a risollevarsi dalla depressione. Era un libro di poesie di Yeats che suo padre Finch aveva regalato alla moglie Maureen il giorno delle nozze, ed era uno dei tesori di sua madre. Ma il «se solo» di Zee funzionava al contrario. Se solo non avesse dato alla madre ciò che voleva quel giorno, se solo non l’avesse lasciata da sola, forse avrebbe potuto salvarla.

1.

Lilly Braedon era in ritardo. Liz Mattei infilò la testa nell’ufficio di Zee. «Fa un caldo del diavolo là fuori», disse. «Oddio, non sei in seduta, vero?» «Dovrei», rispose Zee guardando l’orologio. Erano le tre e un quarto. Mentre parlava, Liz cominciò a rivestirsi, calciò via le scarpe da jogging e si infilò la giacca del tailleur. Faceva tutti i giorni otto chilometri lungo il fiume Charles, con qualsiasi tempo. Quando aveva un surplus di appuntamenti, il che succedeva quasi sempre, teneva le sedute passeggiando sul fiume – la chiamava meditazione in movimento – e diceva ai pazienti che si sarebbero aperti più facilmente senza il suo sguardo indagatore fisso su di loro. Dopo la prima settimana di sedute all’aperto, tutti gli strizzacervelli di Boston avevano cominciato a imitarla e ad andarsene in giro con i loro pazienti. «Mio Dio, non sarà ancora quell’agorafobica!» Era una delle battute di spirito di Liz. Circa la metà dei loro pazienti soffriva di forme più o meno gravi di agorafobia, una patologia che nel migliore dei casi riduceva la percentuale di presenza alle sedute e che ultimamente aveva spinto la Mattei a far pagare gli appuntamenti mancati con un aumento del cinquanta per cento, benché Zee applicasse raramente la nuova regola ai suoi pazienti. Quel giorno Liz stava cercando di farla ridere con più determinazione del solito, il che significava che Zee era di nuovo accigliata. La sua espressione naturale era evidentemente così corrucciata da ispirare un approccio scherzoso, spesso da parte di completi estranei che sentivano la necessità di risollevarle in qualche modo il morale. Proprio quella mattina, un anziano signore che aveva trascurato di raccogliere le feci del suo cane in Louisburg Square le era andato incontro e le aveva ordinato di sorridere. Lei lo aveva fissato. «Non può andare così male», aveva detto l’uomo. Se non fosse stato più anziano di suo padre, Zee gli avrebbe risposto di andare al diavolo, che quella era la normale espressione della sua faccia, e che una persona incurante di raccogliere gli escrementi del suo cane non dovrebbe avere il permesso di girare liberamente. Invece era riuscita a sfoderare un vago sorriso. «Allora, seriamente, di quale paziente si tratta?» Liz aspettava una risposta. «Lilly Braedon.» «La signora Perfezione», puntualizzò. «Ah, no, dimenticavo, quella sei tu.» «Non ancora», rispose Zee un po’ troppo in fretta. «Ah!» disse Liz. «Semplice semplice. Il caso è chiuso. Fanno trecentocinquanta dollari.» «Molto divertente», commentò Zee mentre Liz raccoglieva le scarpe da corsa e lasciava la stanza. All’inizio era stato il marito di Lilly Braedon a cercare aiuto presso la clinica della dottoressa Mattei. La gente arrivava da tutto il mondo per farsi curare da lei. Grazie agli studi a Harvard e a un periodo di lavoro nella famosa clinica universitaria Johns Hopkins, la dottoressa Mattei era una psichiatra che poteva vantare notevoli credenziali. Zee pensava spesso che una delle ragioni per le quali la dottoressa Mattei l’aveva assunta fosse la storia di sua madre. Il caso clinico di Maureen poteva diventare ottimo materiale per un nuovo libro. Ma Liz non aveva mai affrontato l’argomento con lei. Una volta Zee aveva espresso questa teoria, ma lei le aveva risposto che si sbagliava: in realtà l’aveva assunta per i suoi capelli rossi.



L’AUTRICE

Brunonia Barry, nata e cresciuta nel Massachusetts, ha studiato letteratura e scrittura creativa ed è tra i fondatori della Portland Stage Company, la più grande compagnia teatrale del New England. Il suo amore per il teatro l’ha portata a Chicago, dove si è occupata di importanti campagne promozionali e ha scritto diverse commedie di successo. Oggi vive a Salem con suo marito e Byzantium, il loro amato golden retriever. Con Garzanti ha pubblicato La lettrice bugiarda.

3 commenti:

Andrea Storti ha detto...

Questo è uno dei libri che attendo con più impazienza, giusto per vedere cosa sa fare dopo 'La lettrice bugiarda'.
Se riuscirò a trovare un attimo leggerò il prologo! ;)

Debora ha detto...

non lo prenderò è una settimana che sto leggendo la lettrice bugiarda e non lo riesco ancora a finire per quanto non mi piace penso proprio che mi risparmierò i soldi per un altro libro ^.^

Anonimo ha detto...

io l'ho trovato noioso e scritto male.