Questo post arriva un po' in ritardo, ma da una parte è anche meglio. Così se ne continua a parlare. Del libro, dico. Di quello che sto per presentarvi.
È uscito il 17 Gennaio, e l'autore si può oramai considerare un pilastro della narrativa storica. Una figura poliedrica, impegnata su diversi fronti letterari, che avremo modo di conoscere meglio nell'intervista che ha rilasciato proprio in occasione di questa sua ultima pubblicazione. Avete capito di chi sto parlando? No. Allora vi darò un altro indizio: è italiano, il suo nome e il suo cognome iniziano con la lettera "F". Ancora niente?
Va bene, dài, sveliamo l'arcano...
IL SEGNO DELL'UNTORE
Franco Forte
Mondadori
Pagine 358
SINOSSI — Milano, anno del Signore 1576. Sono giorni oscuri quelli che
sommergono la capitale del Ducato. La peste bubbonica è al suo culmine, il
Lazzaretto Maggiore rigurgita di ammalati, i monatti stentano a raccogliere i
morti. L’aria è un miasma opaco per il fumo dei roghi accesi ovunque. In questo scenario spettrale il notaio criminale Niccolò
Taverna viene chiamato a risolvere due casi: un furto sacrilego in Duomo e un
brutale omicidio. Chi ha assassinato il Commissario Inquisitoriale Bernardino
da Savona? E perché? E chi ha rubato il candelabro di Benvenuto Cellini dal
Duomo? La figura del notaio criminale che si muove nel suggestivo
scenario della Milano del 1500, dominata dalla Corona di Spagna e minacciata
dalle continue epidemie di peste, è alla base del romanzo “Il segno dell’untore” di Franco Forte (Mondadori, in libreria dal
17 gennaio 2012), che ha per protagonista il giovane magistrato Niccolò Taverna
nella capitale del Ducato nel 1576. Investigatore astuto, intelligente, grande osservatore di
particolari che sfuggono a inquirenti e criminali, Niccolò Taverna si trova a
dover risolvere difficili casi di omicidio in un clima di tensione tra il
Governatore della città, il potere clericale, rappresentato dalla figura
dell’arcivescovo Carlo Borromeo, e la Santa Inquisizione spagnola, che vede
nell’arcigna figura di Guaraldo Giussani il suo nume tutelare. Nel primo romanzo delle indagini di Niccolò Taverna, questo
straordinario personaggio che sfrutta tecniche investigative a volte
sorprendentemente moderne, per quanto perfettamente calate nel contesto storico
in cui si muove (e ben documentate dall’autore) si muove in un mondo
ricostruito alla perfezione, facendo compiere al lettore un vero e proprio
salto all’indietro nel tempo di quasi 500 anni, in una Milano in cui, sullo
sfondo del Duomo ancora in costruzione, delle colonne di fumo che si
sollevavano dai fopponi, le fosse
comuni in cui si bruciavano i morti di peste, dei conflitti di potere tra Stato
e Chiesa, la criminalità dilaga incontrastata e stupri, furti e omicidi sono
pratiche all’ordine del giorno. Quella che Niccolò deve seguire è un’indagine incalzante,
con lo spettro incombente della Santa Inquisizione che incombe ovunque, per
risolvere un caso di omicidio che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso. Lo stesso
arcivescovo Carlo Borromeo pare implicato, così come le più alte cariche della
Corona di Spagna e della Santa Sede. Per non parlare dell’ordine degli
Umiliati, che il Borromeo ha cancellato e che già una volta ha cercato di
uccidere l’arcivescovo di Milano. Sfruttando le sue straordinarie capacità investigative e le
tecniche d’indagine dell’epoca, il Notaio Criminale Niccolò Taverna cerca di
venire a capo di questi due intricati casi, che rischiano di compromettere la
sua carriera e la sua stessa incolumità. Pur sostenuto da un intuito
eccezionale, è costretto a combattere contro troppi nemici, tutti troppo
potenti: pericolosi assassini, la Santa Inquisizione, la peste, i cui artigli
ghermiscono proprio chi Niccolò ha di più caro. Per il più abile Notaio Criminale di Milano la sfida è
aperta e la posta in gioco è alta: la propria carriera e la propria incolumità.
Oltre all’amore per una fanciulla nei cui occhi ha l’impressione di annegare.
UN ESTRATTO (No, in realtà sono due capitoli interi):
1
La prima cosa che Niccolò Taverna sentì fu l’odore. Il lezzo greve dei corpi che bruciavano nei fopponi, le grandi fosse comuni scavate in città e nelle campagne, veri e propri varchi per l’inferno che ardevano senza sosta, ma che non sembravano mai sufficienti per accogliere i morti che riempivano le strade.
Niccolò si agitò nel suo giaciglio, cercando di tenere gli
occhi chiusi per non svegliarsi, ma dopo l’odore furono i suoni ad aggredirlo,
e la nausea gli strinse la bocca dello stomaco. Si portò le mani sugli orecchi:
tutto inutile. Quelle grida, quei pianti, quelle urla isteriche ormai
campeggiavano nella sua mente da giorni, e non sarebbe bastato quel gesto a
cancellarli.
Trattenendo un gemito si mise seduto sul bordo del letto,
poi aprì gli occhi e guardò dall’altra parte della stanza, dove Anita aveva
trascorso gli ultimi giorni con lui, rantolando sul pavimento.
Era ancora tutto come prima, come quando i monatti erano
venuti a portargli via sua moglie.
Niccolò sapeva che avrebbe dovuto sbarazzarsi degli stracci,
delle coperte e della paglia intrisi di umori infetti che avevano fatto da
giaciglio ad Anita. Avrebbe dovuto bruciare tutto, come imponevano le ordinanze
del tribunale di Sanità e le gride
del governatore stesso, che tentavano disperatamente di arginare con quelle
misure il dilagare della peste, ma sapeva anche che se l’avesse fatto di Anita
non gli sarebbe rimasto più niente. Niente oltre al ricordo del suo viso
pallido, dissanguato dalla malattia, le pustole e i bubboni gonfi, il terrore negli
occhi, velati della follia che si impadronisce della mente quando la morte
arriva a soffiarti nelle nari.
Niccolò si passò le mani sul viso e provò a respirare a
fondo, ma il suo corpo si rifiutava di inalare l’olezzo rancido di cui era
impregnata la casa e che filtrava dalle imposte, insieme alla finissima cenere
in sospensione che nelle ultime settimane aveva ammorbato l’aria di Milano.
“Cenere di corpi bruciati...”
Il pensiero gli acuì la sensazione di malessere nello
stomaco, e si sorprese di non essersi ancora abituato alla vista di tante
persone gettate nelle fosse comuni, perché le fiamme purificassero la malattia
che le aveva rese irriconoscibili.
Ma poi si costrinse a dilatare le narici e a raccogliere
aria nei polmoni, e quel gesto fu determinante per costringerlo ad alzarsi e
dirigersi all’armadio, dove prese i vestiti e si preparò in fretta per uscire.
Mentre indossava le calzebraghe e una camicia di cotone con
polsi e colletto arricciati, ripensò ai casi che aveva ancora in sospeso.
Avrebbe dovuto agire in fretta ma con tatto e discrezione, perché la gente non
avrebbe capito le necessità del suo incarico di notaio criminale e non sarebbe
stata propensa a seguire le disposizioni di legge e a sottoporsi agli
interrogatori necessari alle sue indagini.
Niccolò sospirò e si allacciò in vita la cintura con i ganci
per lo sfondagiaco d’ordinanza, la borsa con i denari e gli strumenti del suo
mestiere. Ai piedi calzò morbidi mocassini di cuoio realizzati dagli artigiani
di Porta Vercellina, dono di suo zio Matteo Taverna, cugino di terzo grado del
grande Francesco, che era stato uno dei più illuminati governatori della
capitale. Lui non avrebbe mai potuto permetterseli. Il suo stipendio di
magistrato gli bastava appena per sopravvivere e per pagare l’esorbitante
affitto mensile che il proprietario del palazzo chiedeva per la sua stanza,
soprattutto dopo che Anita si era ammalata e lui si era lasciato abbindolare da
guaritori senza scrupoli, che lucravano sulle sofferenze della gente.
Quando fu pronto lanciò un’ultima occhiata alle cose di
Anita, ammassate in un mucchio disordinato, e si disse che non poteva più
rimandare. Sebbene il lavoro lo reclamasse, doveva prima trovare sua moglie e
scoprire se anche lei era diventata parte della nube di cenere che gravava su
Milano. O se era ancora preda dei diavoli che le scavavano tane dolorose nel
corpo e nell’anima.
Varcò deciso la porta della stanza e si lanciò lungo le
scale, tremando all’idea di ciò che lo aspettava.
«Benedetto ragazzo, dove corri con tanta furia?»
Svoltando l’ultima rampa, Niccolò aveva quasi travolto una
donna grassa che stava salendo lentamente i gradini, sbuffando e tenendosi
aggrappata al corrimano.
«Zia Ofelia...» si scusò imbarazzato. «Sto andando da Anita.
Ma lei...» scosse la testa, senza aggiungere altro.
«Vuoi che ti accompagni? Che ti prepari qualcosa per lei?»
«No, grazie, non ce n’è bisogno» rispose Niccolò cercando di
allontanarsi.
Zia Ofelia lo fermò con una stretta poderosa. «Aspetta,
portale una di queste» disse indicando la cesta che teneva al braccio. «Le ho
preparate con le mie mani. Sono sicura che la povera Anita ne trarrà
giovamento.»
Niccolò trattenne un’imprecazione. Sapeva che non c’era
altro modo per liberarsi di zia Ofelia che accettare le sue offerte culinarie.
«Grazie» si arrese, infilando la mano nella cesta e pescando
qualcosa di molle, che gocciolava.
«Stai attento» lo mise in guardia lei, «è una birraia
fresca, lasciata ad ammorbidire per tutta la notte.»
Cercando di nascondere il disgusto, Niccolò osservò la forma
di pane duro intrisa di birra acida che gocciolava sulle scale, minacciosamente
vicino alle sue scarpe.
«Grazie» disse, imponendosi di sorridere. «Anita la
apprezzerà di certo. Ma adesso devo proprio scappare.»
Niccolò si allontanò tenendo la birraia gocciolante a un
braccio di distanza dai suoi preziosi mocassini, poi quando fu in strada,
lontano dallo sguardo della zia, lanciò la matassa spugnosa in un canaletto di
scolo.
Anita aveva sempre odiato la birraia, e non era certo quello
il momento per convincerla ad assaggiare le prelibatezze di zia Ofelia.
2
Doveva essere appena scoccata l’ora prima, anche se Niccolò
non poteva saperlo con certezza. I campanili delle chiese tacevano da diversi
giorni, dopo che il battere dei rintocchi era diventato incessante, sospinto
dal gran numero di morti che si inseguivano ora dopo ora. Era stato lo stesso
arcivescovo Borromeo a ordinare il silenzio, che non era di spregio alle
vittime ma contribuiva a rendere meno fragoroso il pianto e l’urlo d’angoscia
di tutta la città.
Niccolò era grato all’archidiocesi per quel provvedimento,
ma d’altro canto per lui lo scandire delle ore dai campanili si era sempre
dimostrato uno strumento valido per organizzare il lavoro e cercare dei punti
di riferimento durante le sue indagini criminali.
Ma adesso non ne aveva bisogno.
Mentre scivolava lungo le strade, diretto al palazzo in cui
era stato allestito uno dei tanti provvisori centri di Sanità sparsi in ogni
quartiere, Niccolò cercava di guardarsi intorno il meno possibile. Teneva gli
occhi puntati sull’acciottolato resistendo al richiamo di urla disperate, grida
strazianti, suppliche d’aiuto o strilli di rabbia che provenivano dalle case
sbarrate dai monatti e dai commissari di Sanità per evitare che presunti malati
di peste uscissero a infettare le poche persone sane che ancora si aggiravano
per la città. Era difficile resistere allo strazio di quelle grida. Da un lato
avrebbe voluto intervenire per liberare quei poveracci che rischiavano di
finire uccisi dalla fame e dagli stenti, più che dalla malattia; ma dall’altro
ricordava il volto pallido di Anita, gli occhi infossati per la sofferenza, e
la sua rabbia quando gli aveva gridato di stare lontano da lei, di non
avvicinarsi, prima di perdere definitivamente il senno e crollare esausta sul
suo giaciglio sporco, le labbra spaccate e lo sguardo perso in un mondo che
solo lei poteva vedere.
Il governatore aveva fatto affiggere le sue gride sui muri della città, esortando i
cittadini a collaborare con le autorità sanitarie, a restare chiusi in casa a
meno che non fosse strettamente necessario uscire, e aveva concesso ai
commissari di Sanità un potere quasi assoluto, quando si trattava di
individuare focolai d’infezione. Ma il Lazzaretto Maggiore e tutti quelli che
erano stati improvvisati in ogni quartiere erano pieni all’inverosimile, e non
c’era stato altro modo per cercare di tenere la situazione sotto controllo che
chiudere in casa chiunque desse segno dell’insorgenza della malattia,
confinando all’interno anche parenti e familiari, possibili portatori del
contagio. I monatti sbarravano porte e finestre inchiodandole con le assi e
mettendo traversi di sostegno, in modo che dall’interno diventasse impossibile
abbatterle, e tutta quella gente era costretta a restarsene imprigionata nella
propria abitazione in attesa di ammalarsi e di morire, oppure del miracolo che
l’avrebbe riconsegnata al perdono di Dio.
Ma ormai erano troppi quelli costretti alla reclusione, e in
tutta la città si levavano grida ingannevoli: tanti asserivano di essere
guariti o di non essere affatto ammalati, e imploravano di essere liberati,
piangevano, minacciavano, urlavano esausti e smarriti.
Niccolò scosse la testa per cercare di scacciare le immagini
che quelle urla evocavano nella sua mente. Solo l’anno prima, insieme ad Anita,
aveva cominciato a leggere la Divina Commedia dell’Alighieri, in una pregevole
edizione a stampa che si era diffusa velocemente in tutto il Ducato,
nonostante fosse stata realizzata dal veneziano Ludovico
Dolce, che si diceva fosse in odore di eresia.
Avevano letto diverse terzine con curiosità, poi, a mano a
mano che si erano addentrati nell’Inferno descritto dal poeta, avevano capito
che Dante non si era scostato troppo dalla realtà, e forse aveva solo descritto
un mondo che aveva visto con i suoi occhi, molto simile a quello in cui si
stava dibattendo Milano sotto gli strali della peste.
Eppure Niccolò era convinto che nemmeno l’Alighieri avrebbe
potuto immaginare un girone dell’Inferno simile a quello in cui erano
imprigionate centinaia di persone in quel momento, costrette a convivere con i
propri ammalati, a respirare l’aria malsana intrisa dell’odore degli umori
infetti, scossi dal terrore di veder crescere anche su di sé i bubboni della
peste.
Sentendo salire di nuovo la nausea accelerò il passo,
evitando di camminare rasente ai muri delle case, per non rischiare che gli
arrivasse in testa un secchio di escrementi svuotato in strada da qualcuno che
se ne infischiava delle disposizioni sanitarie, o che addirittura cercava di
vendicarsi
in quel modo per la segregazione che doveva subire.
E poi c’erano gli indumenti e gli effetti personali dei
malati, che i monatti gettavano dalle finestre per risparmiare tempo e che
cadendo imbrattavano i muri con schizzi di materia putrida che segnavano gli
edifici come se fossero stati messi all’indice.
Niccolò non sapeva come si trasmettesse la malattia, ma
alcuni suoi amici che lavoravano al tribunale di Sanità gli avevano consigliato
di stare lontano da quella materia infetta in quanto ritenuta la causa più
probabile del diffondersi dell’epidemia.
Quando svoltò in via della Vetra fu costretto ad arrestarsi.
Davanti a lui si ergeva qualcosa di ancora più spaventoso
delle secrezioni degli appestati o delle grida dei disgraziati rinchiusi nelle
loro case.
Vide un presidio del Consiglio dell’Inquisizione Generale,
con il patibolo per le esecuzioni e le travi a cui venivano legati gli accusati
di pratiche immonde come la stregoneria, l’unzione o la predicazione
dell’eresia, affinché fossero torturati e potessero, confessando, purificare la
loro anima
prima del supplizio inevitabile.
Niccolò trattenne un moto di rabbia e strinse con forza i
pugni. Quei presidi della Santa Inquisizione avevano il compito non tanto di
punire i colpevoli di qualche eresia, quanto di diffondere la paura e fare
capire che la Corona di Spagna era ancora vigile sul Ducato: nonostante le
pressioni esercitate dall’Arcivescovado e dal Borromeo, il Consiglio, che
rappresentava l’Inquisizione Spagnola, aveva
piena autonomia decisionale in tutto ciò che riguardava atti
di stregoneria o l’abominio protestante. Era una guerra in atto tra poteri
forti che si riversava sulla povera gente e che prevedeva la nascita di quelle
strutture del terrore nei punti nevralgici della città, per stringere le
briglie del cavallo malato e sofferente in cui si era trasformata Milano.
Niccolò restò un attimo a osservare gli abiti bianchi e neri
dei domenicani che allestivano il patibolo e gli attrezzi per le torture, e si
sentì arrestare il cuore nel petto quando si accorse che uno dei prelati, un
uomo alto e dallo sguardo severo, con il naso aquilino proteso verso di lui
come il becco di un rapace affamato, lo stava fissando. Cercò di sostenerne lo
sguardo, poi si rese conto che sarebbe stato un atto d’insolenza: quel
domenicano avrebbe anche potuto essere un commissario inquisitoriale di alto
rango, per ciò che ne sapeva. Abbassò quindi gli occhi e riprese a camminare al
centro della strada, trattenendo a stento la voglia di mettersi a correre per
sfuggire alla pressione dello sguardo del domenicano, che sentiva premere su di
lui.
Quando finalmente svoltò nella piazzetta su cui svettavano
le colonne romane di San Lorenzo, in cui era stato allestito il presidio del
tribunale di Sanità, tirò un sospiro di sollievo e cercò di concentrarsi su
quello che lo aspettava. Non sapeva se Anita era ancora viva oppure no. E,
soprattutto, non sapeva quale delle due ipotesi augurarsi. Perché ormai da
troppo tempo ciò che restava di sua moglie era ben lontano dalla donna che lui
aveva amato.
L'AUTORE — Franco Forte nasce a Milano nel 1962. Giornalista,
traduttore, sceneggiatore, editor delle collane edicola Mondadori (Il Giallo Mondadori, Urania e Segretissimo), ha pubblicato i romanzi Roma in fiamme, I bastioni del coraggio, Carthago, La Compagnia della
Morte, Operazione Copernico, Il figlio del cielo, L’orda d’oro – da cui ha
tratto per Mediaset uno sceneggiato tv su Gengis Khan –, tutti editi da
Mondadori, e La stretta del Pitone e China killer (Mursia e Tropea). Per
Mediaset ha scritto la sceneggiatura di un film tv su Giulio Cesare e ha
collaborato alle serie “RIS – Delitti imperfetti” e “Distretto di polizia”.
Direttore delle riviste Romance Magazine
(www.romancemagazine.it) e Writers Magazine Italia
(www.writersmagazine.it), ha pubblicato con Delos Books Il prontuario dello scrittore, un manuale di scrittura creativa per
esordienti giunto alla settima edizione. Il suo sito è www.franco-forte.it.
L'INTERVISTA:
Franco, una storia
che appare davvero molto interessante, e forse per te un ritorno al thriller
più canonico, per quanto all’interno dell’impianto del romanzo storico che ci
hai abituato a costruire così bene.
Sì, in effetti “Il segno dell’untore” è una sorta di
compendio di tutto ciò che ho imparato scrivendo prima thriller (come “China
Killer” e “La stretta del Pitone”) e poi romanzi storici (da “I Bastioni del
coraggio” a “Carthago” e “Roma in fiamme”). E mi pare di aver centrato il
bersaglio, perché questo personaggio che ho costruito, il notaio criminale
Niccolò taverna, è davvero affascinante e originale, te lo posso garantire.
Giusto,
parlaci di lui. Chi è esattamente Niccolò Taverna?
E’
l’equivalente del 1576 di un moderno commissario di polizia. I notai criminali
erano i magistrati che a quel tempo, a Milano, indagavano sui casi di omicidio,
sui casi criminali e sulle ruberie, e lo facevano adottando tecniche
investigative sorprendentemente moderne, per quanto i loro strumenti più
efficaci per trovare i colpevoli fossero l’intuito, l’istinto e l’esperienza.
Ma trutto ciò che i miei personaggi fanno, è rigorosamente documentato, e
quindi sorprenderà vedere quali tecniche investigative possedevano.
Facci qualche
esempio.
Nel romanzo ce ne sono a bizzeffe e, come detto, non si
tratta di mie invenzioni, bensì del risultato di un lungo lavoro di ricerca e
documentazione che mi ha portato a scoprire come questi funzionari del
Tribunale di Giustizia di Milano fossero davvero all’avanguardia, per ciò che
atteneva le indagini di polizia. Per esempio, erano soliti portare con sé dei
bastoncini con la punta ricoperta di cera, con i quali frugavano fra gli
oggetti appartenuti alle vittime di un omicidio, o su ciò che trovavano sul
luogo di un delitto. Perché? La nostra mentalità moderna ci spingerebbe a
rispondere: per non inquinare le prove. Ma naturalmente, dato che non
esistevano analisi scientifiche, a quell’epoca, il motivo è ben altro. I notai
criminali usavano quei bastoncini per frugare con sicurezza (secondo le
credenze dell’epoca) fra gli ogetti rinvenuti sui luoghi degli omicidi senza
rischiare di toccare qualcosa che potesse essere stato infettato dalla peste,
che nel 1576 stava decimando la popolazione di Milano. Credevano che se
avessero toccato qualcosa imbevuto dell’umore della malattia, questo sarebbe
scivolato sulla cera dei loro bastoncini, e con una semplice scrollatina se ne
sarebbero liberati, senza rischiare contagi.
Questo mi fa capire
quanto sia accurata la ricostruzione che fai di quel periodo storico.
E’ proprio così: nulla è lasciato al caso, e Niccolò taverna
si muove, mentre sviluppa le sue indagini, in una Milano ricostruita
perfettamente nella sua coerenza storica, non solo ambientale, ma anche
riguardo la vita di tutti i giorni: cosa mangiavano, come si vestivano, quali
attività svolgevano le persone in quel preciso momento storico. A emergere,
dunque, non è soltanto la storia di un magistrato che indaga sull’uccisione di un
inquisitore (e sul furto di un oggetto sacro dal Duomo), ma anche la
rappresentazione di un periodo storico molto difficile e per certi versi
affascinante della Milano della seconda metà del 1500. La Milano sotto
dominazione spagnola che vedeva contrapporsi il potere della Corona di Spagna e
della Santa Inquisizione, a essa collegata, a quello del Soglio di Pietro, che
vedeva nella figura dell’arcivescovo Carlo Borromeo (che poi diventerà San
carlo) un baluardo di primo piano nel conflitto tra potere secolare e potere
temporale.
Ma quanto parte di
thriller e di romanzo “giallo” c’è, ne “Il segno dell’untore”, rispetto al
classico romanzo storico?
Non c’è una prevalenza dell’uno rispetto all’altro, bensì un
continuo amalgamarsi e intersecarsi delle due cose. La ricostruzione storica e
il respiro sociale e culturale dell’epoca sono da sfondo a una intricata
indagine che deve fare i conti con gli strumenti limitati dell’epoca e la
capacità del notaio criminale Niccolò taverna di risolvere i casi grazie alla sua
inteligenza e alla sua esperienza. Ma tutto si muove in armonia con il periodo
descritto, rispettando la coerenza che qualsiasi buon romanzo storico richiede,
pur offrendo al lettore l’impianto, le emozioni e il ritmo di un thriller
attuale e congegnato nei minimi particolari.
Mondadori sta facendo
una forte campagnia di marketing e di promozione nei confronti di questo
romanzo, che apre il 2012 per la collana Omnibus italiani. C’è una strategia
precisa, dietro a tutto questo?
Sì, l’editore vuole iniziare il nuovo anno dando un segnale
chiaro ai lettori di un grosso mutamento che ci sarà per i rilegati Mondadori.
Il mio romanzo è il primo di un nuovo corso studiato con intelligenza, che
vuole coniugare un prezzo più aggressivo e abbordabile dal pubblico rispetto al
passato (15 euro anziché i soliti 20 euro), senza però svalutare i titoli che
saranno presentati, puntando quindi alla massima qualità possibile dei testi da
pubblicare. Sono felice di essere un po’ l’apripista di questo nuovo corso, e mi
auguro che il mio notaio criminale riesca a farsi apprezzare dal pubblico per
continuare a proporre le sue indagini mozzafiato.
C’è qualche
collegamento fra questo romanzo e il tuo precedente, “I bastioni del coraggio”,
anch’esso ambientato nella Milano del 1500?
Tra le due vicende sono passati trent’anni, e qualche
personaggio lo si ritrova ancora ne “Il segno dell’untore”, per quanto non più
come protagonista. Per esempio Anita, che ne “I bastioni del coraggio” era una
delle eroine del libro, qui è la moglie di Niccolò Taverna, anche se la sua
parabola narratva risulta piuttosto breve. E lo stesso accade per altri
personaggi, come per esempio il perfido Inquisitore Generale Guaraldo Giussani,
di cui non ci eravamo sbarazzati ne “I bastioni del coraggio”. Un giorno o
l’altro scriverò un romanzo che farà da collegamento fra questi due titoli,
descrivendo che cosa è successo in quei trent’anni di distacco fra un libro e
l’altro.
DELLO STESSO AUTORE:
È da poco spuntata l’alba, quando la levatrice accoglie dal
grembo di Agrippina il piccolo Nerone. Nonostante sia un freddo giorno di
gennaio, il cielo è terso e il sole illumina il neonato mentre si trova ancora
nell’abbraccio della levatrice. Non c’è alcun dubbio, l’auspicio è quanto mai
favorevole: Lucio Domizio Enobardo — Nerone, come vuole la madre — è un
predestinato. Erediterà la forza e lo splendore del sole e guarderà gli uomini
dall’alto senza calcare la terra con i talloni, così come accade agli
imperatori. La profezia però non è conclusa: Nerone regnerà, ma al suo destino
luminoso si accompagnerà un’ombra lunga di delitti e di sventura.Questo
contrasto di buio e di luce, di splendore e miseria sarà il tratto distintivo
del suo carattere e della sua vita, perché nessun personaggio è stato più
misterioso, affascinante, temuto e odiato di Nerone. E nessun personaggio è
stato più controverso. Raggiunto il potere per merito della madre Agrippina,
che uccise il marito Claudio per fare posto al figlio, Nerone nei primi anni
del suo impero dà vita alle speranze che lo vogliono diverso dalla madre e lo
vedono prepararsi a diventare, sotto la guida del filosofo Seneca, un saggio
imperatore. Ma il suo destino vuole altrimenti e, concluso il celebre quinquennium
Neronis, tutto precipita e in breve le ombre del suo carattere sembrano
emergere con violenza, fino al grande incendio di Roma, di cui si vocifera sia
il mandante, e sulle ceneri del quale costruisce la Domus Aurea — la più ricca,
strabiliante e azzardata dimora imperiale di tutti i tempi.Franco Forte
reinterpreta la storiografia classica alla luce degli studi più recenti, che
vedono in Nerone, anziché un pazzo sanguinario, un innovatore di costumi e una
sorta di precursore della politica-spettacolo, restituendoci con uno sguardo
nuovo, e con la vividezza dei migliori romanzi storici, la figura
dell’imperatore che si credeva il dio Apollo e incantava le folle con la sua
arte di citaredo e cantante. E, sullo sfondo, dipinge fin nei dettagli più minuti
una Roma imperiale animata da pulsioni, passioni, intrighi, che
contraddistinguono il periodo dal 54 al 68 d.C. come la crescita più
contraddittoria, ma anche più spettacolare, nella storia dell’Urbe.
Ducato di Milano, 1548. La dominazione spagnola sta devastando la città e il contado, le malattie sembrano inarrestabili, regna la disperazione. Un unico impulso, in questo mondo allo stremo: sopravvivere. Ma la paura della peste, il dilagare della superstizione, l’incombere dell’Inquisizione, la brutale arroganza dei potenti diffondono rabbia e miseria, cancellando qualsiasi speranza per i più deboli. In questo clima di violenza Ludovico de Valois, arrogante e feroce vicario del Capitano di Giustizia, è l’uomo dal pugno di ferro. Ed è anche l’avversario contro il quale Fulvio Alciati, coraggioso soldato di ventura, dovrà fatalmente scontrarsi — dentro i ranghi della gerarchia militare così come nelle scelte etiche che s’impongono alla coscienza. Tra loro, due donne altrettanto indomabili e caparbie: la bella Mariangela Comencini, accusata di stregoneria e impegnata in una fuga senza fine dalla persecuzione dell’inquisitore Guaraldo Giussani; e la giovane Anita Polidori, preda del feroce comandante dal cuore nero, al quale però rifiuta di arrendersi, decisa a lottare per il proprio riscatto. Un groviglio di passioni, odi e amori destinato a sciogliersi nell’implacabile resa dei conti tra Fulvio Alciati e Ludovico de Valois, che trascinerà tutti i protagonisti in un vortice di tragedia e redenzione. Narrato con l’efficacia di un thriller ma sostenuto da una rigorosa ricostruzione storica, "I bastioni del coraggio" è l’affresco crudo ma anche epico, a tratti addirittura poetico, di un’epoca in cui il potere è assoluto, la crudeltà è norma e la compassione è sempre troppo lontana.
Nel 218 a.C. Cartagine non è più la potenza che ha regnato incontrastata per cinquecento anni sul Mediterraneo: la disfatta patita nella Prima guerra punica ha fatto di Roma la nuova signora dei mari e delle terre conosciute fino a Oriente. L'orgoglio dei cartaginesi, però, reclama vendetta. Il giovane Annibale, cresciuto nell'odio per i romani, decide di sfidare apertamente l'Urbe e attacca la città di Sagunto, violando la tregua. Dopo avere approntato un esercito formidabile, che si avvale del supporto degli elefanti, parte per una marcia impossibile che lo porterà a varcare i Pirenei e le Alpi, per scendere nella Gallia Cisalpina e affrontare Roma sul suo territorio. Il piano di Annibale appare folle e senza speranza. Solo un uomo fra i romani sa di trovarsi di fronte al più temibile avversario che la Repubblica abbia mai conosciuto: è Publio Cornelio Scipione, figlio del console Scipione, affascinato dall'abilità e dall'intelligenza dimostrate da Annibale. Quando gli eserciti di Cartagine e di Roma si affrontano nella battaglia del Ticino, il giovane condottiero romano capisce che per poterlo sconfiggere occorre studiare tutto di lui e della sua tattica di guerra. Inizia così un confronto a distanza destinato a durare quindici anni, fino alla resa dei conti a Zama, sulle coste dell'Africa, quando Annibale e Scipione si sfidano in campo aperto, decisi a dimostrare il loro valore in uno scontro che segnerà il destino dei loro popoli. Il romanzo è uscito nel novembre 2011 in Spagna e in diversi Paesi dell'America Latina, per i tipi dell'editore spagnolo Edhasa.
Anno Domini 1176. Nelle campagne vicino a Legnano, i 300 uomini della Compagnia del Carroccio si oppongono all’avanzata dell’esercito del Sacro Romano Impero, guidato da Federico I il Barbarossa. La loro è l’ultima, strenua difesa prima che l’invasore germanico riesca a tracimare in Italia, per soffocare nel sangue il fremito d’indipendenza dei Comuni Padani, riunitisi nella Lega Lombarda dopo il giuramento di Pontida. Al comando della Compagnia del Carroccio c’è Rossano da Brescia, soldato di ventura e uomo d’onore che ha un conto in sospeso con il Barbarossa, che gli ha ucciso la moglie durante l’eccidio di Milano del 1162. Da allora Milano è risorta, e insieme ad altri comuni padani ha dato vita a un esercito che intende fermare i propositi egemonici del Barbarossa in Italia. Un uomo è al comando di questo esercito, un condottiero il cui nome è già leggenda: Alberto da Giussano. Il Comandante lombardo ha dalla sua la forza di intere coorti di giovani combattenti, la più famosa delle quali, la Compagnia della Morte, è composta da novecento uomini valorosi votati a tutto, pur di difendere la Lega dall’invasore germanico. La Compagnia della Morte ha come simbolo e baluardo il Carroccio, un enorme carro su cui svettano le insegne della Lega, la Martinella, la campana che sprona gli uomini alla difesa dei loro diritti e del loro territorio, e il gonfalone con la croce papale. Ed è in onore di Papa Alessandro III che i Comuni Padani hanno fondato Alessandria, una fortezza eretta per resistere all’avanzata del possente esercito imperiale. Sullo sfondo di questi anni eroici e terribili, degli scontri fra guelfi e ghibellini, fra il potere politico e quello spirituale che rischia di far ripiombare l’Italia nella barbarie, si muovono le vicende di Rossano da Brescia, alla ricerca della propria personale vendetta, e di Angelica Concesa, coraggiosa contessina disposta a tutto, anche ad armarsi lei stessa sotto le insegne del Carroccio, pur di restare accanto al suo amato Rossano. Lo scontro finale avviene nelle campagne di Legnano. Rossano da Brescia, Alberto da Giussano e i valorosi cavalieri della Compagnia della Morte, oppongono una strenua resistenza all’avanzata dell’esercito imperiale, sacrificando le proprie vite in nome della libertà e dell’indipendenza padana.E’ il momento della verità, del sangue e dell’amore. Finché non si levano alti i rintocchi della Martinella, a proclamare la vittoria dell’esercito lombardo sull’usurpatore.Una storia di guerra, di battaglie e di morte, ma anche una sorprendente vicenda d’amore e la rivisitazione in chiave epica delle gesta di Alberto da Giussano e dei suoi Cavalieri della Morte, che riuscirono ad assestare un formidabile colpo alle schiere del Sacro Romano Impero.
1 commento:
Ciao Anita, ti ho nominata per il premio "The Versatile blogger" ;) dai un'occhiata http://unbuonlibrononfinisce-mai.blogspot.com/
Posta un commento