Da certe partenze non si vorrebbe mai tornare. Fanno così bene che si vorrebbe dilatarne la durata fino ad annullarne le scadenze temporali. In poche parole, si vorrebbe viverle in loop.
Torino è stata una di quelle. Anche quest'anno il Salone Internazionale del Libro ha soddisfatto pienamente tutte le mie aspettative e mi ha rimpicciolito come una bambina davanti al paese dei balocchi della piccola, media e grande editoria. Ho speso perché non avrei potuto fare altrimenti ma si è trattato di acquisti mirati. Dei libri che non ho potuto permettermi, invece, ho scattato un'istantanea e degli autori che non ho potuto incontrare ho segnato nomi e opere per poterli leggere altrove, nella tranquillità dell'ambiente domestico. Un successo, ecco, ma non di quelli che bramano le luci della ribalta quanto piuttosto di quelli che si accontentano del sapore semplice dell'eternità.
So bene che i giorni appena trascorsi non sono stati affatto felici ma, al contrario, segnati dall'ennesimo scempio di vite innocenti, dai ricordi travagliati di un passato per il quale ancora si pagano i debiti, dalle idee balorde di chi trasforma la creatività in uno strumento di violenza, sintomo di un'umanità che langue in un dolore incolmabile, in una inadeguatezza disperata, in un fatalismo atomico. Non voglio dilungarmi a parlarne perché non ne sarei capace e mi ripeterei nelle stesse, impertinenti convinzioni. Ecco perché ritaglierò il mio spazio sereno dove promuovere il bene dei libri e proverò, con voce sommessa, a donare il mio personale contributo di salvezza.
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